Laura Veirs non una che sta con le mani in mano, visto che questo ormai il suo ottavo album, ma le nostre strade non si sono mai incrociate forse perché poco ero attratto dal suo folk disturbato e sovente dissonante. Con il passare degli anni le forme si sono fatte più classiche in ‘Warp and weft’ le uniche due eccezioni sono le brevi ‘Ghost of Louisville’ e ‘Ikaria’ e un incrocioLaura Veirs non una che sta con le mani in mano, visto che questo ormai il suo ottavo album, ma le nostre strade non si sono mai incrociate forse perché poco ero attratto dal suo folk disturbato e sovente dissonante. Con il passare degli anni le forme si sono fatte più classiche in ‘Warp and weft’ le uniche due eccezioni sono le brevi ‘Ghost of Louisville’ e ‘Ikaria’ e un incrocio casuale mi ha portato all’ascolto di questo disco che, tra belle canzoni e calore diffuso, si rivelato un’assai gradita sorpresa. La musica di questa cantautrice del Colorado trapiantata a Portland funzionerebbe anche solo se eseguita solo con chitarra e voce, ma i suoni corposi che la rivestono la produzione del marito Tucker Martin la rendono ancora più immediata oltre a variare con abilità le tinte utilizzate. A propisto di marito: i dodici pezzi sono stati scritti e registrati durante la seconda gravidanza di Veirs e, anche al netto di qualche suggestione indotta, questa musica comunica una sensazione di tranquilla maturità in un momento di vita sereno. Si può così guardare con la giusta profondità anche alle tristezze che ci circondano si vedano a esempio le tristi vicende narrate in ‘Dorothy of the island’, ballata elettrica con uno svolgimento da 10.000 Maniacs, e in ‘Sadako folding cranes’ (sulla bambina di Hiroshima che pensava di salvarsi creando origami a forma di gru) oppure lo sguardo disincantato sul proprio Paese in ‘America’ unendo al meglio la sensibilità nel raccontare a brillanti scelte dal punto di vista musicale. Se le strutture sono folk, difatti, gli arrangiamenti sono quasi sempre corposi con un netto prevalere degli strumenti elettrici, in special modo la chitarra: se qua e là si esagera ‘Say darlin’ say’, ballata un po’ irrisolta nelle rimanenti occasioni l’intervento comunque calibrato anche quando il brano prende connotati più spiccatamente rock come in quella ‘That’s Alice’ dedicata, all’apparenza in maniera un po’ incongrua, alla figlia di Coltrane. Il jazz sta invece altrove: all’opposto rispetto alla diretta radiofonicità di questo pezzo (con tanto di assolo) c’è la conclusiva ‘White Cherry’ che si muove tra un sax fascinoso, uno stormire di piatti su di un insistito accompagnamento di pianoforte. Tra i due brani sono piazzati i due momenti più intimi del disco, la sopra citata ‘Sadako folding cranes’ (non certo allegra, ma di notevole effetto) e ‘Ten bridges’, due ballate che si svolgono in gran parte acustiche disegnate come sono su delicati arpeggi di chitarra, quasi a voler raffreddare un po’ l’atmosfera che si andata delineando nella prima parte del disco. Dove, tra una fuga chitarristica e l’altra, spicca sì il dolce crescendo di ‘Shape shifter’ che, tra dolce melodia e l’accompagnamento degli archi, si rivela immediatamente riconoscibile, ma dove la linea viene segnata soprattutto:dall’iniziale ‘Sun song’: a seguire un avvio acustico, si staccano prima una steel guitar e poi un’elettrica mentre alla voce carezzevole di Veirs si affianca quella meno convenzionale di Neko Case. I dodici brani che compongono ‘Warp and weft’ non ne faranno forse un disco epocale, ma lo rendono un luogo molto piacevole da visitare e dove si torna più spesso di quanto non si potesse pensare prima di conoscerlo.… Expand