Quando il primo disco fa il botto, dargli un seguito è difficile. L’impresa si complica se si parla un ragazzino di neppure vent’anni che passa dalle zone popolari di una città di provincia alle prime pagine londinesi, tra una storia con una modella e il pubblico che sta aspettando gli Stones a Hyde Park. Però, se al secondo album si interessa uno come Rick Rubin con un invito a registrareQuando il primo disco fa il botto, dargli un seguito è difficile. L’impresa si complica se si parla un ragazzino di neppure vent’anni che passa dalle zone popolari di una città di provincia alle prime pagine londinesi, tra una storia con una modella e il pubblico che sta aspettando gli Stones a Hyde Park. Però, se al secondo album si interessa uno come Rick Rubin con un invito a registrare nei propri studi di Malibu, la prospettiva diventa succulenta e, allora, è più acuta la delusione che si fa largo quando svanisce l’ultima nota della conclusiva ‘Storm passes away’. Intendiamoci, questo non è un brutto disco e, anzi, in più di un momento la qualità delle canzoni non può certo essere messo in discussione, ma l’esito complessivo non si avvicina minimamente alla somma degli addendi. E’ come se Jake, tanto contento di essersi trasferito in Florida da dare al disco il nome dello studio di registrazione, perdesse parte della propria inglesità a favore di un suono più levigato e rotondo che sicuramente favorirà lo sfondamento nel mercato statunitense (un po’ freddino con l’esordio) ma che non sfugge all’impressione di una certa banalità. Rubin, che al momento è un po’ inflazionato, riveste il tutto con sonorità più rock che però finiscono per prevaricare (eppure si tratta di un uomo che ha dimostrato di essere capace di togliere): il vestito che ne esce ha un taglio da anni Novanta e non sempre cade a pennello sulla passione dell’artista per la musica di tre decenni precedente. Mentre sul primo disco erano poco più di un accenno, qui gli Oasis, e il brit-pop in generale, sembrano essere un’ascendenza diretta. Basterebbe come esempio quella ballata in salsa Gallagher che si intitola ‘A song about love’ (per la quale la voce nasale di Jake non è certo adatta), ma si possono aggiungere due pezzi come ‘What doesn’t kill you’ o ‘Kingpin’ che, Arctic Monkeys a parte e per rimanere nella stessa fascia di età, sembrerebbero più adatte agli Strypes. L’inizio risulta così ingannatore perchè: ‘There’s a beast and we all feed it’ riprende la scarna struttura di voce e chitarra acustica che si conosceva e che richiama alla memoria echi di Buddy Holly e rockabilly. Dopo, fino al folk un po’ incongruo del brano conclusivo, i ritmi iniziano a farsi mediamente più tirati e, nei suoni più corposi, è l’elettrica ad avere il sopravvento sull’acustica: benché i ritornelli siano sovente contagiosi (‘Slumville sunrise’, ‘Messed up kids’) gli episodi che finiscono per farsi più apprezzare sono canzoni più delicate come ‘Me and you’ (che mette in mostra più di una traccia di country) e soprattutto una ‘Pine trees’ che, nella sua breve durata, riprende (guarda caso) sonorità del primo lavoro, mentre solo un gradino sotto resta l’incedere dolente del mid-tempo ‘All your reasons’. Quest’ultimo è comunque un segnale che c’è voglia di provare strade nuove, come pure – e in modo ancor maggiore – l’ inquieta e oscura ‘Kitchen table’ in cui una nervosa sei corde chiama e le tastiere liquide rispondono: alla fine, è proprio questo il brano che con più facilità si ripresenta alla memoria. Si tratta di aperture che, se il ragazzo saprà resistere alle tentazioni del successo facile, potranno avere sviluppi positivi per la sua musica e per noi che la ascoltiamo: in fondo, la capacità di scrivere canzoni - seppure sempre in compagnia di altri - viene confermata in questo disco che, comunque, raggiunge una sufficienza abbastanza ampia. (Visto? Non ho nominato Dylan neppure una volta, ma non so se sia un bene o un male).… Expand