Dopo una certa frequentazione ai tempi degli Smog, avevo perso i contatti con Bill Callahan e, al termine di numerosi ascolti di questo brumoso dischetto, direi che non è stata una mossa saggia. Ho ritrovato una voce ancor più bassa e affascinante nonchè, soprattutto, un autore che ha affinato l’arte del togliere, costruendo le sue canzoni su pochi suoni essenziali (in ‘Dream river’ laDopo una certa frequentazione ai tempi degli Smog, avevo perso i contatti con Bill Callahan e, al termine di numerosi ascolti di questo brumoso dischetto, direi che non è stata una mossa saggia. Ho ritrovato una voce ancor più bassa e affascinante nonchè, soprattutto, un autore che ha affinato l’arte del togliere, costruendo le sue canzoni su pochi suoni essenziali (in ‘Dream river’ la batteria è assente, solo percussioni discrete e spazzole a cura di Thor Harris) e su testi che procedono per immagini che scaturiscono fulminee da frasi semplici nella forma, ma evocative nella sostanza. Da simili premesse, è facile intuire che queste otto canzoni non possono essere particolarmente allegre, del resto in linea con il resto dell’opera del loro autore: su tutto il disco si spande una crepuscolare luce d‘autunno, però, più che alle angosce esistenziali, l’atteggiamento complessivo fa pensare a un pacato racconto accanto al camino. Questa rilassatezza, contrappuntata qua e là da una certa ironia – già a partire dal tizio della prima canzone, quello che guarda da una finestra che non c’è e che in una giornata ha detto solo ‘birra’ e ‘grazie’, ma l’ha ripetuto un bel po’ di volte – fa sì che l’ascoltatore si faccia avvolgere volentieri dall’atmosfera, anche perché Callahan, sul canovaccio del cantautorato introspettivo, sa introdurre con abilità spunti diversi. Può succedere all’interno dello stesso brano – basti pensare al treno che ‘appare’ per un attimo ancora nell’iniziale ‘The sing’ interrompendone la dolcezza folk guidata dal violino (Chojo Jacques) – e di certo tra una canzone e l’altra: se ‘Small plane’ è una bella ballata acustica, l’elettrica guida sia ‘Javelin unlanding’, sia ‘Spring’ che, entrambe forti anche del prezioso flauto di Beth Galiger, procedono su un ritmo più serrato e con la seconda che prima evoca scenari desertici e poi si alza di tono tra piano e chitarra che si distorce. Un po’ quello che accade alla complessa ‘Summer painter’, dove, per oltre sei minuti, le contorsioni della sei corde e il flauto dialogano alternandosi a un cantato più ansiogeno, in una struttura analoga ma maggiormente ispida di quella presente in ‘Ride my arrow’. Quasi che si fosse accorto che, a questo punto, i toni si sono scuriti un po’ troppo, Callahan inserisce i tocchi tra jazz e tango di ‘Seagull’, che finisce così per richiamare le sonorità di un altro grande baritono come Leonard Cohen, per poi chiudere il cerchio con la fascinosa ‘Winter song’ in cui ritroviamo fiddle e accompagnamento alla chitarra acustica. Trattandosi di canzoni abbastanza rarefatte, anche i compagni di viaggio di Bill sono pochi e, oltre a quelli già citati, si segnalano il basso di Jaime Zuverza e, in special modo, la chitarra di Matt Kinsey che contribuisce a dare la definitiva coloritura a molte canzoni: canzoni che hanno colori pastosi e non definiti come il paesaggio montano del dipinto di Paul Ryan in copertina, ma che, allo stesso modo di quello, catturano subito l’attenzione e sanno davvero farsi ricordare.… Collapse